Modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza anche in altri Paesi, vengono definite come "smart working all'estero".

Definizione sommaria questa che trova riscontro giuridico nei disposti che seguono, i quali sanciscono il diritto a svolgere la prestazione lavorativa ad esame per i:

⦁ lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in possesso di certificazione attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie, nonché ai lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità (art. 26 del Decreto Legge 17 marzo 2020)

⦁ genitori lavoratori dipendenti il cui figlio convivente, minore di anni sedici, sia stato sottoposto a quarantena o al quale sia stata sospesa la didattica (art. 21 bis del Decreto Legge 14 agosto 2020).

In altre parole, lo smart working rappresenta un'alternativa di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall'assenza di vincoli, orari e spaziali e di un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro.

Smart working all'estero: c'è una doppia imposizione?

Le restrizioni alla libertà di circolazione, imposte dall'emergenza epidemiologica da Covid 19, vi è sicuramente l'impatto sullo smart working all'estero in merito alla individuazione chiara e precisa della residenza fiscale del lavoratore (art. 2 del TUIR) e sulla disciplina delle doppie imposizioni fiscali.

Da questa circostanza, sono conseguite le riflessioni del Ministero dell'Economia e delle Finanze e dell'OCSE, necessarie a dipanare i dubbi sorti in materia.

Il documento OECD Secretariat Analysis of Tax Treaties and the Impact of the COVID-19 Crisis, pubblicato sul sito dell'OCSE affronta il problema di stabile organizzazione e di residenza fiscale in Italia di dipendenti "frontalieri" che lavorano in modalità smart working.

E sulla falsa riga del documento OCSE si è espresso anche il MEF che ha ribadito la regola generale in virtù della quale:

"Nei casi in cui una persona fisica sia considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, ai sensi delle rispettive normative domestiche, apposite disposizioni, generalmente contenute all'Articolo 4 delle Convenzioni, conformemente a quanto previsto dal Modello OCSE di Convenzione fiscale, individuano i criteri dirimenti (le cosiddette tie-breaker rules) al fine di stabilire la residenza della persona ai fini della Convenzione. Tali regole prendono in considerazione, nell'ordine, i criteri della disponibilità di un'abitazione permanente, il centro degli interessi vitali, il luogo in cui il soggetto soggiorna abitualmente, la nazionalità (quando non sia possibile stabilire la residenza in base a detti criteri, le autorità competenti degli Stati contraenti devono accordarsi al riguardo)".

L'abitualità del soggiorno deve essere valutata in base al numero dei giorni, alla frequenza, durata e regolarità nella vita ordinaria.

A tal riguardo, l'Italia ha concluso accordi con le Autorità competenti di alcuni Paesi (Austria, Svizzera e Francia), al fine di risolvere le questioni fiscali legate allo smart working all'estero, alla residenza fiscale ed alla tassazione dei redditi.

Ad avere un ruolo di rilevanza sono gli uffici dell'Amministrazione finanziaria, i quali assicurano la trattazione delle procedure amichevoli con le autorità dei Paesi interessati e dipanano le difficoltà/dubbi inerenti all'interpretazione o all'applicazione delle disposizioni delle Convenzioni sulle doppie imposizioni.

Secondo infatti quanto stabilito nei Trattati conformi al modello OCSE del 2017, in ipotesi di potenziale doppia residenza fiscale, tra i fattori da considerare allo scopo spiccano il luogo in cui il board solitamente si riunisce, il luogo in cui il CEO e gli altri senior executive usualmente svolgono le loro attività, dove è localizzato la sede principale dell'azienda e simili.

Smart working all'estero: la nuova residenza fiscale virtuale

Nell'ambito dell'emergenza sanitaria in corso e dello scenario generatosi, l'OCSE, con il documento sopra citato, è intervenuta anche in tema di stabile organizzazione.

In generale, una S.O. deve avere un certo grado di permanenza ed essere a disposizione dell'impresa estera affinché possa considerarsi esistente una sede fissa di affari per mezzo della quale l'impresa estera esercita, in tutto o in parte, la sua attività d'impresa nello Stato in cui la base è situata.

In particolare, il documento precisa che è da escludersi possa configurarsi una SO (sede fissa di affari) della società estera che abbia posto i propri dipendenti in smart-working, stante il carattere di eccezionalità dell'evento COVID-19, unitamente alla circostanza che lo smart working sia riconducibile a un caso di forza maggiore.

Allo stesso modo, l'eccezionalità dell'evento COVID-19 porta a escludere un tema di stabile organizzazione personale. Ciò anche nel caso in cui un soggetto concluda da remoto (dunque da uno Stato diverso da quello di residenza dell'impresa) contratti per conto dell'impresa estera.

Quanto sopra, salvo il caso in cui tale opzione organizzativa diventi permanente al termine dell'emergenza sanitaria.

Conclusione questa che si fonda sulle seguenti considerazioni:

⦁ il ricorso al telelavoro non è una modalità abituale di effettuazione della prestazione lavorativa, bensì una scelta operativa configurante una causa di forza maggiore;

⦁ la modalità di svolgimento del lavoro da remoto, è per sua natura priva dei caratteri di permanenza e continuità del "basic rule", di cui al primo paragrafo dell'art. 5 del Modello di Convenzione OCSE.

Sei in smart working all'estero o in un paese diverso dalla tua residenza abituale?

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